Udine: tra i Savorgnan e i Della Torre, le vendette del Rinascimento


MARIO TURELLO dal MV di oggi

Il 27 febbraio del 1511 i contadini affluiti numerosi a Udine per i festeggiamenti carnevaleschi e un migliaio di soldati rientrati da un’infruttuosa perlustrazione alla ricerca di mercenari tedeschi segnalati nei dintorni, gli uni e gli altri Zambarlani, seguaci cioè del potente clan capeggiato da Antonio Savorgnan, aggredirono gli Strumieri – la famiglia Della Torre e i nobili a essa solidali -, saccheggiarono e incendiarono le loro case, ne uccisero numerosi e infierirono sui loro cadaveri mutilandoli, squartandoli, gettandoli in pozzi e latrine, abbandonandoli in pasto a cani e maiali

La violenza deflagrò poi nel contado in una serie di rivolte contro i castellani strumieri (filoimperiali, mentre il Savorgnan si atteggiava a campione della Serenissima) che subirono in diversa misura violenze e ruberie.<br />
A partire dai fatti del tragico giovedí grasso udinese Muir dilata l’analisi delle loro cause, concomitanze e conseguenze in chiave microstorica, strutturalista, antropologica, indiziaria, facendone un prezioso “laboratorio” in cui saggiare le ipotesi storiografiche sull’istituto “selvaggio” della vendetta e il passaggio alla composizione “civile” delle rivalità per mezzo del duello.
Ricostruiti i fatti sulla scorta della cronaca (faziosa) di Gregorio Amaseo, Muir ne indaga il contesto storico, economico e politico, prendendo le mosse dal 1420, anno della conquista della Patria del Friuli da parte di Venezia che si trovò a confrontarsi, fallimentarmente, con l’“enigma friulano”. Regione di importanza strategica, il Friuli – povero, linguisticamente e culturalmente isolato, ignaro dell’evoluzione dei valori civici rinascimentali, dominato da una classe militare senza piú funzioni, erede d’una cultura arcaica e feudale – era un “labirinto istituzionale” complesso e contraddittorio al punto che la vita reale della società era di fatto regolata da relazioni non-istituzionali, in un sistema foriero di continui dissidi.
I conflitti tra le fazioni venivano regolati con interminabili faide (di cui Muir dipana in chiave antropologica i presupposti culturali e i codici simbolici e comportamentali), sulla base di un “ethos della vendetta” praticato dalle famiglie feudali rivali che dalla fine del XV secolo catalizzarono tensioni sociali e politiche mediante sistemi di patronato, parentele, amicizie, clientele, polarizzandole intorno ai Savorgnan e ai Della Torre, la cui inimicizia risaliva al 1339.
Tensioni che esplosero a opera di Antonio Savorgnan, il capo carismatico piú di ogni altro nobile friulano prossimo all’ideale del principe machiavelliano, nel «pazzo ribollire del sangue» del 1511. Il leggibilissimo saggio di Muir diventa in questa seconda parte appassionante come un romanzo, dispiegando la vastità della documentazione e lumeggiando gli aspetti della strage che sono oggetto dell’ultima parte, la piú interessante e originale ove, nel nome di Bachtin, Ginzburg, Le Roy Ladurie, si considerano le mentalità e le ideologie soggiacenti agli eventi.
Muir evidenzia le analogie esistenti tra vendetta, carnevale e caccia, comprendenti il rapporto reale e simbolico tra uomo e animale, la macellazione, la distribuzione dei trofei, il cannibalismo. Secondo l’autore, gli Zambarlani in vari sensi “interpretarono” dei motivi carnevaleschi tradizionali – dalla battaglia tra Grasso e Magro alla teatralizzazione della dissezione dei corpi, all’“inversione” orrenda di esseri umani ridotti a cibo per animali – non solo per lanciare ai propri nemici messaggi di spregio nel “linguaggio della carne” proprio del carnevale, ma anche mossi da credenze superstiziose, alcune ricollegabili a quelle relative ai benandanti.
A questo primo livello culturale di interpretazione altri ne sovrappose la riflessione posteriore: l’indagine del Consiglio dei Dieci per determinare le responsabilità dell’accaduto; la lettura “apocalittica” attenta a prodigi e castighi celesti (tali furono considerati il terremoto e la pestilenza susseguiti al sanguinoso giovedí grasso); la tradizione narrativa di parte a futura memoria e legittimazione di nuove vendette.
Alla strage udinese e alle sollevazioni seguí una lunga catena di ritorsioni, dall’assassinio in Villaco di Antonio Savorgnan, passato con improvviso voltafaccia e cattivo calcolo politico agli imperiali (un cane ne avrebbe divorato le cervella: tornano nei racconti della sua morte i temi della caccia e del cannibalismo metaforico), ai numerosi attentati (anche con pacchi esplosivi), imboscate (anche sul Canal Grande), sfide, omicidi, che via via perdono però il carattere collettivo della vendetta, essendosi ormai sfaldato il sistema delle fazioni, e acquistano sempre piú quello di regolamento dei conti privato mediante il duello, impostosi nelle corti rinascimentali e adottato anche dai nobili friulani, spesso risedentivi come esuli. Rifacendosi a Norbert Elias (e soffermandosi sulla ridefinizione – nell’etichetta cortese – della distanza tra uomo e animale), Muir analizza le modalità della “vendetta per cortesia” e il concetto individualizzato di onore. Nel 1567 lo strumiero Troiano d’Arcano e Federigo Savorgnan si affrontano in duello e muoiono entrambi; l’anno dopo il Consiglio dei Dieci riesce a imporre la pace ai due clan. Ormai, conclude Muir, anche nel microcosmo del Friuli si può scorgere come l’accettazione di un’ideologia di civiltà abbia stimolato un’importante trasformazione nel comportamento umano.
Citazione da Romeo and Juliet, il titolo (nell’originale Mad Blood Stirring) è bellamente scelto, e non solo a esempio del vocabolario delle passioni dell’epoca: come è noto, Shakespeare si ispirò a una novella di Luigi da Porto dedicata a Lucina Savorgnan, di cui s’era innamorato da giovane soldato: lui nipote di Antonio, lei figlia di Giacomo, e tra i due non correva buon sangue… Luigi la conobbe al ballo del mercoledí, nella magica notte di carnevale carica di luttuosi presagi, vigilia di tragedia.