Friuli: rivendicare i basilari diritti di cittadinanza

di MICHELANGELO LICATA
coordinatore del circolo di Udine dell’Uaar (unione degli atei e degli agnostici razionalisti)  

Tutte le indagini statistiche confermano che siamo in presenza di un costante allontanamento della popolazione dalle pratiche religiose. I non credenti sono ovunque, nel mondo, in costante crescita. Soprattutto negli strati più benestanti ed acculturati della popolazione. Infatti per rompere con le tradizioni del passato sembra importante avere una libertà di pensiero, un’indipendenza economica e un discreto livello culturale. Così nel Nord Europa registriamo percentuali di atei e agnostici spesso superiori alla metà della popolazione. Al contrario nei Paesi, spesso poverissimi, dell’Oriente c’è un’adesione quasi totale alla religione. Oppure sono Paesi in cui certamente la democrazia è molto precaria o del tutto inesistente. (Di questi giorni la vicenda del giovane scrittore Hamza Kashgari, accusato di blasfemia, fuggito in Malaysia e da lì estradato verso la patria di origine, l’Arabia Saudita, dove addirittura rischia la vita per avere “offeso” Maometto. Una petizione online ne chiede la liberazione immediata e si può sottoscriverla sul sito: http://www.change.org/petitions/saudi-government-interpol-and-malaysian-government-freedom-for-hamza-kashgari) Ora anche un’indagine commissionata dai Vescovi del Nord Est, come descritto dall’articolo “Due friulani su 5 senza fede in Dio” del Messaggero Veneto di domenica 19 febbraio, rivela che da noi il fenomeno di secolarizzazione nella società è molto avanzato. Anche nel “bigotto” Friuli, senza entrare nei dettagli dei numeri e delle percentuali, significativo è il numero di quanti si dichiarano atei, ma soprattutto è enorme il numero di quanti pur dichiarandosi credenti e cattolici, in realtà “se ne fregano” dei dettami della dottrina cristiana e vivono la loro religiosità in maniera personale e secondo propri principi etici e morali. Questo su questioni non di poco conto: battesimi sempre meno, matrimoni religiosi meno della metà di quelli celebrati, pratica della confessione inesistente, convivenze e rapporti prematrimoniali alla grande (ci mancherebbe!). E non è stata sondata l’opinione circa il fine vita. Sicuramente anche qui la grande maggioranza vorrebbe scegliere da sé come morire e, certamente, non delegarlo a un pontefice Benedetto XVI qualsiasi. Quindi sembrerebbe tutto bello e positivo. La società si va secolarizzando. Che non vuol dire perdita di valori, ma affermazione di altri e nuovi valori. Rispetto per tutte le idee (ovviamente anche quelle religiose), per tutte le persone (uomini e donne), per tutte le tendenze sessuali e via dicendo. Perché tutti siamo umani con eguali diritti e doveri e nessuno può, o dovrebbe potere, imporre ad altri le proprie visioni e concezioni (in questi giorni, il 17 febbraio, ricorre il 412° anniversario della morte di Giordano Bruno sul rogo dell’inquisizione). E invece le cose non vanno per niente bene. Perché i più insensibili a questa ventata di libertà sono proprio i nostri amministratori. Quelli che dovrebbero interpretare le esigenze del “popolo” e invece si dimostrano molto sensibili ai richiami del potere, e in questo caso a quelli provenienti dal Vaticano. Così abbiamo delle leggi come quella sulla procreazione assistita che gridano vendetta, nessun riconoscimento per le coppie di fatto, l’impossibilità di decidere come morire e via dicendo. Invece quando si tratta di concedere privilegi alla gerarchia ecclesiastica, vuoi con l’8 per mille, con l’esenzione dell’allora Ici sugli immobili della Chiesa, con l’assunzione, a spese di tutti, degli insegnanti di religione e via dicendo, non si è proprio badato a spese. L’Uaar, l’associazione che riunisce gli atei e agnostici italiani, ha calcolato, in maniera prudenziale, che ogni anno sono regalati alla Chiesa almeno 6 miliardi di euro! Come si può vedere, solamente per rivendicare i fondamentali diritti di cittadinanza, in questo Paese, c’è ancora moltissima strada da fare. *

Una risposta a “Friuli: rivendicare i basilari diritti di cittadinanza”

  1. Etimologia della vita
    I NUOVI CREDENTI

    di
    Ermes Dorigo

    Si avvicina la Pasqua – e l’occasione di alcune riflessioni sul credere o non credere -, massima solennità cristiana, è anticonsumista; il dolore, la riflessione sulla sofferenza e sulla nostra fragilità e finitudine non hanno un mercato, che invece ha agglutinato il Natale: una Nascita – ma dove sono le nascite? – è pur sempre gioiosa, edonista e, appunto, consumista. Anche il metaforico legame di tale liturgia con la primavera è saltato, insensibili pure alla resurrezione della natura. E’ con questa crosta dura dell’indifferenza e dell’aridità che devono confrontarsi insieme credenti ed etici laici, ormai minoranza in una società dominata, come li definiva sarcasticamente Giacomo Leopardi, da I nuovi credenti: “E se talor la vostra vita inciampa, come ad alcun di voi, d’ogni cordoglio/ il non sentire e il non saper vi scampa/…/ Degli uomini e del ciel delizia e cura/ sarete sempre, infin che stabilita/ ignoranza e sciocchezza in cuor vi dura:/ e durerà, mi penso, almeno in vita.” Perché, invero, anche costoro ‘inciampano’, come tutti gli uomini, nel dolore, ma lo esorcizzano, lo schivano, lo sopportano come fastidio transitorio, avendo incarcerato il cuore e sintonizzata e blindata la mente sulla nuova trinità – ricchezza, potere, celebrità -; e dall’interiorità, dove la sofferenza li porterebbe, fuggono nella mistificante e caleidoscopica esteriorità, nella quale volitano leggeri come il vuoto, privi di sentimenti e pensieri: questo vuoto, però, è pesante e opprimente, comprime ed emargina nel privato sofferenza, malattia e morte e gli interrogativi sul loro significato. Con ciò, lo si capisce, intendo storicizzare e contestualizzare un paradigma assoluto e indicibile, qual’è la Passione di Cristo, perché il nostro limite del ‘qui ed ora’ altro non può fare che tentare con umiltà di estrarre da quel Modello alcune indicazioni per una vita totalmente e intensamente umana.
    Scriveva Giuseppe Ungaretti che “La morte/ si sconta/ vivendo”, intendendo che solo la morte libera dalla sofferenza intrinseca al vivere. Oppure, con i versi di Mario Luzi: “E’ la vita nell’uomo…/ una ferita aperta;/ rare volte/ si addolcisce/ ma non si rimargina”. Durante la vita non si muore una sola volta, ma, dentro, tante volte; talora la vita è una vera e propria ‘passione’, sofferenza fisica e spirituale: nel primo senso sopravvive solo con riferimento al sacrificio di Cristo e a quello dei primi martiri della fede cristiana; nel secondo si associa all’idea di una profonda e tormentata afflizione. ‘Patire’, infatti, significa “subire un dolore prolungato, riconducibile a disagio fisico e spirituale, a una profonda o angosciosa sofferenza”; ma il latino patior, da cui deriva, significa anche “ sostenere, sopportare, resistere, essere passivo, impotente”. Ed è proprio questa nostra impotenza di fronte al dolore, che ci offende, umilia il nostro orgoglio, ci fa sentire piccoli. E’ allora che sentiamo l’urgenza di trovare dentro o fuori di noi un quid che ci traghetti oltre il nero fiume della disperazione; che ci conceda il passaggio, la nostra ‘pasqua’, il ritorno ad una luce se pur ombrata.
    A me piace, anche se i linguisti inorridiranno, associare alla radice di ‘patior’ quella di ‘pateo’, essere aperto, accessibile, estendersi: ritengo, infatti, che la compressione del dolore dovrebbe deiettarci da noi stessi e farci incontrare quello degli altri, creando il senso fraterno dell’umana solidarietà, cementata dalla ‘compassione’, riconoscendoci non solo nel comune dolore, ma nella comune partecipazione ad esso. Allora conosceremmo e faremmo nostra la ‘pietas’, il sentimento di dolorosa e premurosa partecipazione all’infelicità altrui (che può diventare ‘angoscia’, stordimento interiore, come in Dante di fronte a Paolo e Francesca: “E caddi come corpo morto cade”).
    Sempre per continuare su questo tono dialogico col lettore e per contestualizzare ulteriormente il Modello, vorrei dire anche che la percezione del dolore, dell’inquietudine, della paura, dell’orrore, non è assoluta, ma varia nel corso dell’esistenza. Parlando di ‘pietas’, non posso non ricordare Michelangiolo: delle quattro Pietà ch’egli realizzò, farò riferimento alla prima, certamente la più conosciuta, quella che si trova in San Pietro, realizzata negli anni 1497/99, quando l’artista aveva poco più di vent’anni; e all’ultima, la cosiddetta Pietà Rondanini, iniziata nel 1554, all’età di 79 anni, e alla quale lavorò fino alla morte.
    La Pietà di San Pietro, si sa, è ispirata ai versi di Dante: “Vergine madre, figlia del tuo figlio”; ma già Jacopone da Todi aveva posto sulle labbra della Madonna, rivolta al Figlio sulla croce, queste parole: “figlio, pate e marito”; poi, purtroppo, venne il Petrarca a rovinare la profondità del mistero con l’esornativa canzone “Vergine bella, che di sol vestita”. A parte queste notazioni, vorrei sottolineare soprattutto come in questa Pietà la levità celestiale del marmo e la spiritualizzazione della materia rivelino al fondo una speranza e un’illusione adolescenziali, che percepiscono la morte come un ritorno nel giovane grembo materno, quindi alla vita: la Madonna tiene in braccio Cristo come un bambino dormiente.
    La Pietà Rondanini, volutamente non-finita, come “ un pensiero che non può essere espresso se non per frasi mozze e per accenti tronchi” (Giulio Carlo Argan), nella figura mortalmente disarticolata del Cristo, compenetrata in quella della Madre, fortemente chiaroscurata, di una dinamicità quasi gotica, evidenzia, lo scoramento dell’artista, la sua paura che la materia possa avere il sopravvento sullo spirito, l’angosciante enigma della morte; “dubbioso passo” anche per il credente; annichilente anche per un laico che, come Leopardi, l’immagini come un “abisso orrido, immenso,/ ov’ei precipitando, il tutto obblia”. Sarebbe certamente più rassicurante affrontarla come scrive il poeta Vincenzo Cardarelli: “ Morire sì/ non essere aggrediti dalla morte./ Morire persuasi/ che un siffatto viaggio sia il migliore”. Se, infine, sovrapponessimo idealmente le due Pietà, potremmo ottenere anche l’intuizione e la percezione immediata del mistero della maternità, coessenza di vita e di morte.
    Al centro di queste due estremità temporali dell’esistenza si colloca la Passione di Cristo. La Sua morte è fortemente allegorica: avviene, infatti, “ nel mezzo del cammin” della sua vita, cioè agli inizi della maturità consapevole e responsabile, quando l’uomo muore e rinasce, ‘passa’ dalla vita ‘data’ alla vita ‘scelta’, che impone distacchi laceranti e drammatici, il farsi carico di se stessi e degli altri: l’accettazione volontaria della Necessità o, con altra parola, del proprio Destino. E soprattutto della solitudine, ineliminabile: un angelo conforta Gesù, ma non lo solleva dalla sua responsabilità e non gli allevia il peso dell’essere solo con se stesso nel portare a compimento la propria sorte. Qui ci soccorre ancora la parola ‘pietas’, che ha anche il significato di senso del dovere. Per Cristo verso il Padre (“Padre, se è possibile passi da me questo calice. Però non come voglio io, come vuoi tu” (Mt 26, 39)), cui si rivolge con affetto con la parola con cui il bambino si rivolge al padre: “Abbà” (che mi risuona nella mente la dolcezza del toscano: babbo). Un dato significativo è il fatto che la parola “Padre” compare nella prima frase pronunciata da Gesù a dodici anni nel tempio di Gerusalemme (“Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio?” Lc 2,49), e nell’ultima invocazione di Gesù sulla croce (“Padre nelle tue mani affido il mio spirito” Lc 23,46). Tutta la Sua esistenza si pone in riferimento continuo verso Colui che lo ha mandato, verso la Legge; e la beatitudine, se pur tragica, sta nell’adeguamento della volontà del Figlio a quella del Padre.
    Nella società contemporanea che fine ha fatto la Legge? Metafisica o terrestremente interiore ch’essa sia? Dove sono finiti i ‘padri’? O che razza di ‘padri’ ci è (stata) data in sorte? Che fine hanno fatto: la distinzione tra bene e male, vero e falso, bello e brutto? la coerenza con se stessi, il rispetto della parola data, il mantenimento degli impegni assunti liberamente, i conti con la propria coscienza, la responsabilità verso se stessi e verso gli altri? Questi sono solo alcuni interrogativi che scaturiscono dalla riflessione sulla Passione; perché Essa si configura anche come sintesi metaforica della cattiveria e del male del mondo, dove l’innocenza è continuamente martoriata da tradimenti, abbandoni, rinnegamenti, scherni, offese, disprezzo e indifferenza verso la sofferenza: nella nostra vita quotidiana la Croce si presenta in molte forme diverse: malattia, povertà, droga, non comunicazione, emarginazione, tormento prolungato, sacrificio, impotenza, rinuncia, umiliazione, prepotenza, arroganza, malizia, menzogna, viltà, falsità: caratteristiche queste ultime tipiche dei “nuovi credenti”, per i quali bianco e nero sono la stessa cosa, come pure ingiustizia e ingiustizia, ricchezza e povertà…, che dovrebbero meditare i versi e le parole che Dante fa pronunciare nel canto XXVII° dell’Inferno al “nero cherubino”, il diavolo, venuto a prendersi l’anima di Guido da Montefeltro, alle quali l’umile e docile San Francesco non può opporsi, perché il demonio è strumento della giustizia divina: “Ch’assolver non si può chi non si pente,/ né pentère e volere insieme puossi/ per la contradizion che nol consente”.
    Anche il laico, soprattutto quello di formazione cristiana che si è poi allontanato dal cattolicesimo, avverte la necessità di modelli forti, cui aggrapparsi nei momenti, numerosi, delle cadute nel calvario quotidiano. Per quanto mi riguarda ho sempre subito il fascino di Francesco d’Assisi, esempio inimitabile, ma più vicino alle nostre debolezze e alla nostra forza, colui che visse sì ad imitazione di Cristo, ma che non parla nel nome del Padre, bensì come un fratello, che ha commesso degli errori e si è redento. E a Francesco si rivolse un animo errabondo, piagato, dolorante, inquieto, alla continua ricerca della pace interiore, col quale sento la mia consonanza, il poeta Dino Campana. Con le sue parole mi piace chiudere queste riflessioni, in quanto rendono in forma sublime quanto io e molti miei studenti abbiamo provato, visitando La Verna: “Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora e volare distesa verso le valli immensamente aperte. Il paesaggio cristiano segnato di croci inclinate dal vento ne fu vivificato misteriosamente. Volava senza fine sull’ali distese, leggera come una barca sul mare. Addio colomba, addio! Le altissime colonne di roccia della Verna si levavano a picco grigie nel crepuscolo, tutt’intorno rinchiuse dalla foresta cupa. (…) Si levava la fortezza dello spirito, le enormi rocce gettate in cataste da una legge violenta verso il cielo, pacificate dalla natura prima che le aveva coperte di verdi selve, purificate poi da uno spirito d’amore infinito: la meta che aveva pacificato gli urti dell’ideale che avevano fatto strazio, a cui erano sacre pure supreme commozioni della mia vita.(…) Fuori il tramonto s’intorbida. Strie minacciose di ferro si gravano sui monti prospicienti lontane. Il sogno è al termine e l’anima improvvisamente sola cerca un appoggio una fede nella triste ora.”

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